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Il coraggio di tenere la porta aperta per passare “dall’io al noi” e accogliere l’altro

[contributo apparso su "Dialogo - Periodico dell'Azione Cattolica Lodigiana" novembre 2020]



Chiuso. Aperto. Chiuso. Aperto. Chiuso. Aperto…

Le due parole si rincorrono, si inseguono per tutto il testo, pulsano in battere e levare nel cuore di questo scritto di Papa Francesco. Leggendola mi è sembrato che l’enciclica si muovesse, danzando su questo ritmo.

Le ho cercate e le ho contate: la prima a comparire è “chiuso”, nel titolo del capitolo primo, ma è “aperto” a prevalere, viene adoperata da Francesco più volte, fino alla fine.


Le due parole mi interessano, mi stanno appiccicate da vent’anni, su di loro abbiamo costruito l’esperienza della nostra casa a Borghetto Lodigiano, una casa che vive lasciando aperta, sempre, quella che per abitudine e forse per vocazione dovrebbe essere chiusa: la porta.

Francesco punta molto in alto, guarda al mondo intero: io riesco a buttare lo sguardo al massimo fin dove arriva, solo fino al confine della mia casa, a quella porta che ci sforziamo di non chiudere. Abbiamo scoperto che se lasci la porta di casa aperta le persone entrano! In questi anni molti tra “gli esclusi che rimangono ai margini della vita”, come li chiama Francesco, hanno trovato casa nella nostra casa.


Sono contento perché pagina dopo pagina Francesco spinge il suo racconto verso un mondo, aperto, a cui vorrei che la mia casa somigliasse. C’è poco di romantico nel testo di Francesco, così come poco romantica è la nostra esperienza: la condivisione e la fraternità tra estranei, senza un legame di sangue e senza una storia comune, è “l’impossibile”. Anche Emmanuel Lévinas – un pensatore che attribuiva un ruolo decisivo all’esperienza dell’alterità – riconosceva che a livello istintivo, degli appetiti naturali che muovono la nostra vita, “l’altro è l’indesiderabile per eccellenza”. L’altro è “altro”, non è fatto per riconoscerti, non è l’incastro perfetto del sistema di ideali, valori, bisogni attorno a cui hai costruito la tua esistenza. Per questo è scomodo, per questo lo lasci fuori. Questa è la fatica che viviamo ogni giorno anche in casa nostra: un rincorrersi continuo di due opposti, da una parte il bisogno istintivo di chiudere la porta, di cedere ad una intimità esclusiva, dall’altra il desiderio irrequieto di aprirsi, di non chiudere a chi entra per recitare la propria parte nella scena della nostra esistenza.


Non è il tema della cura a fare problema, non è questa la parte indigesta del discorso di Francesco: è naturale, istintivo, prendersi cura del “tuo” mondo, dei tuoi affetti, di ciò che riconosci e che ti rispecchia, dell’alterità che fa già parte di ciò che è tuo, di ciò che sta già dentro il confine di casa tua. Anche la moglie dell’Orco, nella fiaba di Perrault, si prende cura degnamente di Pollicino e dei suoi fratelli persi nel bosco. Lo fa però per averne un ritorno, perché diventino il cibo per sé e per il marito. L’essere umano è naturalmente capace di cura, le nostre case in questa parte del mondo sono luoghi dove la cura e i confort sono esasperati. Francesco non invita ad “aumentare” la cura, non chiede di spostare un po’ più in là il confine. Francesco chiede di aprire. Francesco chiede di aprire il cuore.


Ho usato il possessivo “mia” e la parola “casa” al singolare: grazie a Dio le case con la porta sempre aperta a Borghetto Lodigiano sono molte: “l’io” può diventare “noi”.


Andrea Menin

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